IN QUEL PROFONDO TRATTO DI MARE (Quanto
si può essere stupidi, dimmi/ Le cose che mi mancano).
I.
Una giornata piuttosto mite, piena di sole
caldo sulla pelle, si presentava agli occhi di Fiore Salvemini, in quell'inizio
di febbraio del 1909.
Appena aggrappato alla ringhiera della
veranda di casa, era intento a fumare una sigaretta - vezzo da universitario sofisticato
– con tutta la lentezza che gli riusciva e dopo aver riposto con un’elegante
torsione del polso i fiammiferi nel taschino del panciotto.
Lo sguardo rivolto contro il muro del cortiletto
di casa non gli impediva però di notare, con la coda dell’occhio, le
meravigliose gocce d’acqua trasparente che imperlavano, come su una ragnatela, il
ferro battuto della ringhiera.
Le tre e mezza del pomeriggio erano passate
da poco e Fiore aveva appena finito di masticare l’ultimo boccone di pane del
suo unico pasto giornaliero. A quell'ora davanti casa c’era sempre un silenzio
totale che fino a qualche tempo prima, assaporava come un agognato premio di
metà giornata. Ora, invece, quei momenti di pace gli procuravano una strana agitazione,
un’urgenza di risolvere qualcosa che neanche lui sapeva definire.
Da poco meno di un anno sua moglie se ne
era andata per sempre dando alla luce il loro unico figlio. Lui e Adelina si
erano sposati presto; forse troppo presto, a quanto gli disse un giorno suo
padre, proprio sotto quella stessa veranda, guardandolo, in piedi, con i pugni
serrati lungo i fianchi e lo sguardo disperato. Il commendator Giovanni
Salvemini, solitamente persona mite e ragionevole, quella volta aveva stranamente
alzato la voce. Aveva osteggiato fin dall'inizio quell'unione con la foga degna
di una Cassandra scarmigliata che avesse appena vaticinato una futura fiumana di
dolori.
Ma alla fine, contro la sua volontà e come
era giusto che accadesse, l’unione ci fu e fu felice finché durò.
Certo, i primi tempi il commendatore cantilenava
ancora, ogni tanto:
- Tua
madre, lo sai bene con chi se n’è fuggita, e sai anche quello che mi ci è
voluto per farti crescere senza che ne sentissi la mancanza. Spera che non ti
capiti lo stesso!
Ma era solo la vecchia ferita che parlava
al cuore di quell'uomo, un cuore rassegnato alla paura dei mille precipizi che di
solito i giovani non vedono.
Ora però che la moglie di suo figlio non era
più tra i vivi, si ritrovava sconsolato a rimpiangere ogni momento per non averla
amata, per non averla considerata come una figlia, per non essersi fidato di
quegli occhi adolescenti e intraprendenti. Non tanto per la riconoscenza di
avergli dato un nipotino, di cui le era pur grato, ma soprattutto per l’amore
puro che quella giovane donna aveva portato nella loro casa, un amore pieno di
futuro, questa volta davvero concreto e definitivo.
E tuttavia, ora, la vita di Fiore aveva smesso
di scorrere. Il padre spesso tentava di scuoterlo dalla tristezza e dalla
malinconia che lo avvolgeva come una coperta spessa, ma ben presto si accorse,
con amarezza, che nulla avrebbe potuto scalfire il suo dolore, neppure l’amore
di un padre. Col tempo smise di insistere, confidando -come tutti fanno prima o
poi - che il tempo avrebbe aggiustato ogni cosa.
Ma il tempo passava e Fiore non accennava
a dimenticare. Il tempo copriva le cose, ma sotto lo spesso strato delle
raccomandazioni, dei ripensamenti, degli utili consigli dati per dimenticare, quelle
stesse cose rimanevano incorrotte come non fossero mai morte, in attesa di
essere dissotterrate e nuovamente sepolte, per infinite volte. Tutti i ricordi
di Adelina erano infatti ancora tutti lì, sparsi ovunque nella sua mente come
in una camera da letto lasciata in disordine, piena di vestiti smessi
accumulati in ogni angolo.
Pensava soprattutto a come se ne era
andata in fretta, tanto velocemente che le lacrime di gioia per il figlio nato si
erano mescolate fatalmente a quelle di disperazione per la morte di lei.
Vagò disorientato per mesi dopo il fatto,
senza avere il coraggio o la voglia di vedere nessuno, di spiegare, di rendere
conto di quella scomparsa; in particolare provava ripugnanza per quelle ‘pacche
sulla spalla’ date in pubblico da amici e conoscenti, certo, in segno di
conforto; mani calde e umide che però in privato si trasformavano in veloci sguardi
dati di nascosto pieni di imbarazzo.
Ma si dovette, alla fine, tornare in
università, per dovere e per denaro soprattutto. A quel tempo Fiore era uno
degli assistenti più anziani del Professor Perrando, all'Istituto di Medicina
legale della Reale Università di Catania. Grandi speranze risiedevano nel nuovo
assetto dell’istituito medico forense e in quel gruppo di giovani studiosi. Il
lavoro certamente non mancava, e neppure le missioni di studio all'estero;
soprattutto a Vienna dove al privilegio di poter frequentare i famosi laboratori
di Ritter von Hofmann, si aggiungeva il piacere nascosto per le allegre
scorribande nei locali alla moda lungo la Stephansplatz o nei dintorni
dell’Università. Quella vita colma fino all'orlo di vitalità per il cuore e per
la mente era ormai finita, scivolata via insieme alle mani insanguinate di una
levatrice disperata.
Così ogni giorno Fiore, con la costanza di
chi non vuol perdere il proprio dolore, si ritrovava ad accendere quell'unica solitaria
sigaretta bianca, immergendosi con lo sguardo, fin dove riusciva, nel silenzio
immobile del pomeriggio.
Ora quel silenzio veniva interrotto dal suono
del campanello di casa. Il padre si affacciò alla finestrella di servizio accanto
alla porta. Un giovane senza fiato si massaggiava le gambe mentre con una mano
teneva una velina leggera tutta stropicciata.
- Il Dottor Fiore? Ho qui una lettera dal
dipartimento.
Giovanni la prese e la consegnò al figlio.
- Metto su il caffè e vado a svegliare
Cecchino. La nuova balia arriverà tra poco - disse Fiore prendendo dalle mani
del padre il foglio di carta e appoggiandolo con poco riguardo sul tavolo.
C’era di sicuro qualche fatica all'orizzonte in quel pezzo di carta, pensò infastidito;
qualche incarico per conto dell’Istituto che non gli sarebbe stato gradito.
Versò il caffè in due tazzine e le lasciò
raffreddare sul tavolo della cucina. All'istante un intenso aroma di chicchi
appena macinati misto a odore di latte bruciato invase tutta la stanza.
Attraversò il corridoio che si inoltrava
in quella parte più buia della casa e si accostò alla porta appena socchiusa
della camera dove dormiva il bambino. Si chinò sulla culla. Il pancino si
muoveva su e giù gonfiandosi ritmicamente sotto le coperte, con il respiro calmo
del sonno profondo. Lo prese tra le braccia e ritornò in cucina. La balia, nel
mentre, era arrivata e ora parlottava in punta di voce con il padre. Appena
vide Fiore con il figlio ancora addormentato su una spalla, si protese a
prenderlo a sua volta tra le braccia. Fiore si distaccò dal bambino come si
fosse finalmente divincolato da un peso fastidioso. Odiava, dentro di sé, quel
bambino; lo odiava con tutto sé stesso, e il padre e la balia lo sapevano. Il
commendatore guardò la scena, poi abbassò lo sguardo e scosse la testa. La
balia invece non pensò a nulla e andò velocemente a sedersi in un angolo per
attaccare il bambino al seno. Stare in quella casa il meno possibile era
l’unico modo di sfuggire a quell'atmosfera soffocante e contagiosa.
A fine serata, quando tutti erano ormai a
letto, Fiore si decise ad aprire la lettera, rimasta fino a quel momento
ignorata sul tavolo della cucina proprio sotto il lampadario, come centrata
dalle luci di una ribalta.
Caro Dott. Salvemini,
pregoVi di
ricevere questa mia con animo ben disposto, pur sapendo che da qualche tempo
diserta, a quanto mi dicono, il nostro istituto. La consapevolezza che Lei
possa e debba dare un contributo alla Nostra Università che l’accoglie e la stima,
mi spinge, invero, a chiederLe di svolgere per mio conto una missione di una
certa delicatezza, a cui io stesso m’applicherei se non ne fossi impedito da
gravi obblighi accademici. Un caro amico, il Prof. Condorelli, direttore
dell’Istituito di Parassitologia del nostro Ateneo, mi scrive chiedendomi di
condurre un’autopsia per certe sue ricerche odierne. Non so bene la cosa e non
ho avuto modo di informarmi a riguardo, ma troverà in Università uno svelto fascicolo
a suo nome che Le ho appositamente fatto preparare, dove potrà reperire quanto Le
sarà d’uopo sapere. Pare di bisogno, inoltre, che Lei si rechi prestamente al
locale distretto sanitario municipale e colà conduca la suddetta autopsia. Il
compito non parmi gravoso affatto per una mente scelta come la Sua; aggiungo che
potrebbe esserci una qualche occasione di pubblicarne i risultati; cosa questa che
stimo della massima importanza per chi come Lei intenda seguitar lo studio
delle Scienze nostre.
Confidando in una pronta accettazione dell’incarico,
La saluto Cordialmente,
Prof. Perrando.
Ripiegò la lettera e lentamente sprofondò
a pensare nel sofà. Ecco dunque occorrerà rassegnarsi anche a questa fatica.