martedì 2 giugno 2020

IN QUEL PROFONDO TRATTO DI MARE - Cap. I


IN QUEL PROFONDO TRATTO DI MARE (Quanto si può essere stupidi, dimmi/ Le cose che mi mancano).
I.
Una giornata piuttosto mite, piena di sole caldo sulla pelle, si presentava agli occhi di Fiore Salvemini, in quell'inizio di febbraio del 1909.
Appena aggrappato alla ringhiera della veranda di casa, era intento a fumare una sigaretta - vezzo da universitario sofisticato – con tutta la lentezza che gli riusciva e dopo aver riposto con un’elegante torsione del polso i fiammiferi nel taschino del panciotto.
Lo sguardo rivolto contro il muro del cortiletto di casa non gli impediva però di notare, con la coda dell’occhio, le meravigliose gocce d’acqua trasparente che imperlavano, come su una ragnatela, il ferro battuto della ringhiera.
Le tre e mezza del pomeriggio erano passate da poco e Fiore aveva appena finito di masticare l’ultimo boccone di pane del suo unico pasto giornaliero. A quell'ora davanti casa c’era sempre un silenzio totale che fino a qualche tempo prima, assaporava come un agognato premio di metà giornata. Ora, invece, quei momenti di pace gli procuravano una strana agitazione, un’urgenza di risolvere qualcosa che neanche lui sapeva definire.
Da poco meno di un anno sua moglie se ne era andata per sempre dando alla luce il loro unico figlio. Lui e Adelina si erano sposati presto; forse troppo presto, a quanto gli disse un giorno suo padre, proprio sotto quella stessa veranda, guardandolo, in piedi, con i pugni serrati lungo i fianchi e lo sguardo disperato. Il commendator Giovanni Salvemini, solitamente persona mite e ragionevole, quella volta aveva stranamente alzato la voce. Aveva osteggiato fin dall'inizio quell'unione con la foga degna di una Cassandra scarmigliata che avesse appena vaticinato una futura fiumana di dolori.
Ma alla fine, contro la sua volontà e come era giusto che accadesse, l’unione ci fu e fu felice finché durò.
Certo, i primi tempi il commendatore cantilenava ancora, ogni tanto:
-  Tua madre, lo sai bene con chi se n’è fuggita, e sai anche quello che mi ci è voluto per farti crescere senza che ne sentissi la mancanza. Spera che non ti capiti lo stesso!
Ma era solo la vecchia ferita che parlava al cuore di quell'uomo, un cuore rassegnato alla paura dei mille precipizi che di solito i giovani non vedono.
Ora però che la moglie di suo figlio non era più tra i vivi, si ritrovava sconsolato a rimpiangere ogni momento per non averla amata, per non averla considerata come una figlia, per non essersi fidato di quegli occhi adolescenti e intraprendenti. Non tanto per la riconoscenza di avergli dato un nipotino, di cui le era pur grato, ma soprattutto per l’amore puro che quella giovane donna aveva portato nella loro casa, un amore pieno di futuro, questa volta davvero concreto e definitivo.
E tuttavia, ora, la vita di Fiore aveva smesso di scorrere. Il padre spesso tentava di scuoterlo dalla tristezza e dalla malinconia che lo avvolgeva come una coperta spessa, ma ben presto si accorse, con amarezza, che nulla avrebbe potuto scalfire il suo dolore, neppure l’amore di un padre. Col tempo smise di insistere, confidando -come tutti fanno prima o poi - che il tempo avrebbe aggiustato ogni cosa.
Ma il tempo passava e Fiore non accennava a dimenticare. Il tempo copriva le cose, ma sotto lo spesso strato delle raccomandazioni, dei ripensamenti, degli utili consigli dati per dimenticare, quelle stesse cose rimanevano incorrotte come non fossero mai morte, in attesa di essere dissotterrate e nuovamente sepolte, per infinite volte. Tutti i ricordi di Adelina erano infatti ancora tutti lì, sparsi ovunque nella sua mente come in una camera da letto lasciata in disordine, piena di vestiti smessi accumulati in ogni angolo.
Pensava soprattutto a come se ne era andata in fretta, tanto velocemente che le lacrime di gioia per il figlio nato si erano mescolate fatalmente a quelle di disperazione per la morte di lei.
Vagò disorientato per mesi dopo il fatto, senza avere il coraggio o la voglia di vedere nessuno, di spiegare, di rendere conto di quella scomparsa; in particolare provava ripugnanza per quelle ‘pacche sulla spalla’ date in pubblico da amici e conoscenti, certo, in segno di conforto; mani calde e umide che però in privato si trasformavano in veloci sguardi dati di nascosto pieni di imbarazzo.
Ma si dovette, alla fine, tornare in università, per dovere e per denaro soprattutto. A quel tempo Fiore era uno degli assistenti più anziani del Professor Perrando, all'Istituto di Medicina legale della Reale Università di Catania. Grandi speranze risiedevano nel nuovo assetto dell’istituito medico forense e in quel gruppo di giovani studiosi. Il lavoro certamente non mancava, e neppure le missioni di studio all'estero; soprattutto a Vienna dove al privilegio di poter frequentare i famosi laboratori di Ritter von Hofmann, si aggiungeva il piacere nascosto per le allegre scorribande nei locali alla moda lungo la Stephansplatz o nei dintorni dell’Università. Quella vita colma fino all'orlo di vitalità per il cuore e per la mente era ormai finita, scivolata via insieme alle mani insanguinate di una levatrice disperata.

Così ogni giorno Fiore, con la costanza di chi non vuol perdere il proprio dolore, si ritrovava ad accendere quell'unica solitaria sigaretta bianca, immergendosi con lo sguardo, fin dove riusciva, nel silenzio immobile del pomeriggio.

Ora quel silenzio veniva interrotto dal suono del campanello di casa. Il padre si affacciò alla finestrella di servizio accanto alla porta. Un giovane senza fiato si massaggiava le gambe mentre con una mano teneva una velina leggera tutta stropicciata.
- Il Dottor Fiore? Ho qui una lettera dal dipartimento.
Giovanni la prese e la consegnò al figlio.
- Metto su il caffè e vado a svegliare Cecchino. La nuova balia arriverà tra poco - disse Fiore prendendo dalle mani del padre il foglio di carta e appoggiandolo con poco riguardo sul tavolo. C’era di sicuro qualche fatica all'orizzonte in quel pezzo di carta, pensò infastidito; qualche incarico per conto dell’Istituto che non gli sarebbe stato gradito.
Versò il caffè in due tazzine e le lasciò raffreddare sul tavolo della cucina. All'istante un intenso aroma di chicchi appena macinati misto a odore di latte bruciato invase tutta la stanza.
Attraversò il corridoio che si inoltrava in quella parte più buia della casa e si accostò alla porta appena socchiusa della camera dove dormiva il bambino. Si chinò sulla culla. Il pancino si muoveva su e giù gonfiandosi ritmicamente sotto le coperte, con il respiro calmo del sonno profondo. Lo prese tra le braccia e ritornò in cucina. La balia, nel mentre, era arrivata e ora parlottava in punta di voce con il padre. Appena vide Fiore con il figlio ancora addormentato su una spalla, si protese a prenderlo a sua volta tra le braccia. Fiore si distaccò dal bambino come si fosse finalmente divincolato da un peso fastidioso. Odiava, dentro di sé, quel bambino; lo odiava con tutto sé stesso, e il padre e la balia lo sapevano. Il commendatore guardò la scena, poi abbassò lo sguardo e scosse la testa. La balia invece non pensò a nulla e andò velocemente a sedersi in un angolo per attaccare il bambino al seno. Stare in quella casa il meno possibile era l’unico modo di sfuggire a quell'atmosfera soffocante e contagiosa.
A fine serata, quando tutti erano ormai a letto, Fiore si decise ad aprire la lettera, rimasta fino a quel momento ignorata sul tavolo della cucina proprio sotto il lampadario, come centrata dalle luci di una ribalta.

Caro Dott. Salvemini,
                                    pregoVi di ricevere questa mia con animo ben disposto, pur sapendo che da qualche tempo diserta, a quanto mi dicono, il nostro istituto. La consapevolezza che Lei possa e debba dare un contributo alla Nostra Università che l’accoglie e la stima, mi spinge, invero, a chiederLe di svolgere per mio conto una missione di una certa delicatezza, a cui io stesso m’applicherei se non ne fossi impedito da gravi obblighi accademici. Un caro amico, il Prof. Condorelli, direttore dell’Istituito di Parassitologia del nostro Ateneo, mi scrive chiedendomi di condurre un’autopsia per certe sue ricerche odierne. Non so bene la cosa e non ho avuto modo di informarmi a riguardo, ma troverà in Università uno svelto fascicolo a suo nome che Le ho appositamente fatto preparare, dove potrà reperire quanto Le sarà d’uopo sapere. Pare di bisogno, inoltre, che Lei si rechi prestamente al locale distretto sanitario municipale e colà conduca la suddetta autopsia. Il compito non parmi gravoso affatto per una mente scelta come la Sua; aggiungo che potrebbe esserci una qualche occasione di pubblicarne i risultati; cosa questa che stimo della massima importanza per chi come Lei intenda seguitar lo studio delle Scienze nostre.
Confidando in una pronta accettazione dell’incarico,
La saluto Cordialmente,
Prof. Perrando.
       
Ripiegò la lettera e lentamente sprofondò a pensare nel sofà. Ecco dunque occorrerà rassegnarsi anche a questa fatica.


25 aprile

 

Accogli il mare,

accogli la terra,

accogli la donna,

accogli il bambino,

che arriva

pian piano

con piccoli passi

di un’allodola bruna.

 

Presto il cielo

rosso di sole

mostrerà

il velo dell’aria

disteso sul mondo.

Solo allora, 

un cattivo naufragio

basterà all’amore

per dirsi

appagato

di un sottile

passato.

 

Sentire

i piedi

che saltano,

è la scoperta

che disseta

la terra

e per questo

occorre-

esserne

grati.

 

In questa stanza,

ancora tranquilla,

coperta

di pagine scritte

da antichi marinai

addormentati,

solo una presenza

non torna

a riposare

sulla riva

che disegna

il profilo d’orizzonte

di chi guarda.

 


 

 

IN QUEL PROFONDO TRATTO DI MARE - Cap. I

IN QUEL PROFONDO TRATTO DI MARE ( Quanto si può essere stupidi, dimmi/ Le cose che mi mancano ). I. Una giornata piuttosto mite, piena...